IL SOGNO DEL PRIGIONIERO

Albe e notti qui variano per pochi segni.

Il zigzag degli storni sui battifredi

nei giorni di battaglia, mie sole ali,

un filo d’aria polare,

l’occhio del capoguardia dallo spioncino,

crac di noci schiacciate, un oleoso

sfrigolio dalle cave, girarrosti

veri o supposti- ma la paglia è oro,

la lanterna vinosa è focolare

se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre senza un perché.

Dicono che chi abiura e sottoscrive

può salvarsi da questo sterminio d’oche;

che  chi obiurga se stesso, ma tradisce

e vende carne d’altri, afferra il mestolo

anzi che  terminare nel patè

destinato agl’Iddii pestilenziali.

Tardo di mente, piagato

dal pungente giaciglio mi  sono fuso

col volo  della tarma che  la mia suola

sfarina sull’impiantito,

coi  kimoni cangianti delle luci

sciorinate all’aurora dai torrioni,

ho annusato nel vento il bruciaticcio

dei buccellati dai forni,

mi sono guardato attorno, ho suscitato

iridi su orizzonti di ragnateli

e petali sui tralicci delle inferriate,

mi sono alzato, sono ricaduto

nel fondo dove il secolo è il minuto

e i colpi si ripetono  ed i passi,

e ancora ignoro se sarò al festino

farcitore o farcito. L’attesa è lunga,

il mio sogno di te non è finito.

Da La bufera

La poesia del 1954,  strutturata in cinque strofe di cui la prima di un solo verso, è   composta di versi endecasillabi,  spesso ipermetri e in alcuni casi di tredici sillabe ( v 11 e v 28). Vi è un’assenza nella  regolarità delle rime tuttavia vanno segnalate quelle ai v 2 e v 10, ai v 4 e v 9, ai v.18 e v26,  ai v 29 e 30. Sono presenti anche delle rime interne ai versi 2 e 3. Attorno alla rima in –ato della terza strofa ruota una serie di consonanze ( cangianti, sciorinate, buccellati,  suscitato ecc.) con una frequenza di participi in funzione verbale o aggettivale. La struttura delle prime tre strofe  connota la descrizione della prigionia in cui tuttavia nasce e si sviluppa fino ad esplodere il tema del sogno, parola chiave che innesca l’andamento  cataforico della poesia e isotopia della “libertà”, cui si contrappone la  condizione di  “prigionia” esplicitata dall’elemento paratestuale. L’autore muovendo dalla propria esperienza empirica la trascende  e, nella disarmonia  con la realtà tesse una rete tra realtà e sogno, come  espressione positiva di una attesa ( l’attesa è lunga v.33).

Nella lirica il trascorrere del tempo( v.1) è dato da pochi segni indicativi e opposti e appare solo superficialmente irrilevante nel procedimento prolettico. Pochi sono i contatti del prigioniero con la realtà espressi attraverso il ricorso a correlativi oggettivi: il zigzagare degli uccelli come unica apertura alla libertà, il filo dell’aria fredda , l’occhio scrutatore della guardia e dei rumori appena percepiti o supposti. Sono questi i presidi di tortura e di morte  che si fondono in un gergo gastronomico attorno a cui gravitano anche i riferimenti alle persecuzioni fisiche.

Il grottesco sublime di Dante del Malebolge si stempera in un tono meno sostenuto di quello delle prime raccolte, in cui il plurilinguismo già avvertibile nei primi versi si amalgama con i diversi registri in una  musicalità estrema, non aliena da termini classicheggianti. È il monostilismo di cui parlerà Mengaldo. Dalla degradazione del presente l’illusione del sogno eleva il poeta alla donna amata, rovesciando la situazione iniziale. E’ da rilevare la presenza della onomatopea ( crac v.6) che anticipa l’insistito gioco fonico della seconda strofa quasi sempre accompagnato dalla metafora gastronomica. La purga (v.11)si collega attraverso l’alternanza delle rime all’isotopia del grottesco- delirio- prigionia., solo chi  rinnega se stesso o tradisce, può salvarsi dallo sterminio d’oche,  afferrando il mestolo  invece di finire nel patè. L’uomo è ridotto a pura carne, che può divenire o mescolare l’orrenda mistura  di morte : il mestolo (v.15) prolunga la metafora  dell’uomo-oca-carne-patè. Ma le purghe staliniane si trasformano in condizione esistenziale dell’uomo nel loro perdurare senza motivo, per questo , forse, l’innalzamento ossimorico al verso 17 ( Iddii pestilenziali)  denuncia icasticamente la forza del Male, i cannibali del Potere in senso lato. Il soggetto ribadisce la propria sofferenza con il rilevante enjambement ai vv.18-19 della terza strofa,  in una sofferenza che implode nell’uccisione alienata di una tarma.

Così in un alternarsi di discese e risalite, la sensazione dell’estasi del colore cangiante dell’aurora, resa con straniante similitudine (v.22) contrasta con il linguaggio  dimesso e allitterante dei suoni aspri, spesso geminati. La  quarta strofa , in chiusura reitera  termini contrapposti ma semanticamente collegati alla catena delle metafore precedenti, con una crudele foneticità delle fricative ( festino, farcitore, farcito),. Nel delirio allucinatorio ormai i segni della  realtà e dell’onirico si confondono, l’unico risarcimento al dolore, metafora dello scacco esistenziale della prigionia umana, è espressa nei versi finali, di cui l’ultimo in litote semanticamente rilevante.

L’attesa è nell’apertura al sogno-donna,  il Valore che il prigioniero della vita si ostina ad attendere attraverso la poesia.