Gli intellettuali nel Risorgimento italiano e la questione nazionale.

Lo Stato-nazione: democratici e liberali

In Italia il cosiddetto Risorgimento, prese avvio dopo la caduta di Napoleone (1815) e si protrasse per circa cinquant’anni, concludendosi nel 1861 con la liberazione della Lombardia dall’Austria e con l’annessione alla monarchia piemontese  di gran parte degli Stati italiani. A questa data rimanevano ancora esclusi il Veneto e Roma (che entreranno a far parte del Regno d’Italia rispettivamente nel 1866 e nel 1870), e il Trentino e la Venezia Giulia con Trieste (annessi solo in seguito alla I guerra Mondiale nel 1918).

Liberali

Due ideologie si contesero la guida del Risorgimento italiano: liberalismo e democrazia.  Il liberalismo, i cui precedenti  vanno ricercati in particolare nelle teorie politiche di Locke e Montesquieu , mirava a salvaguardare le libertà individuali (di pensiero, di parola, di fede, di associazione) in uno Stato di tipo parlamentare, rappresentativo. Suo corrispettivo a livello economico era il liberismo, che sosteneva la libera iniziativa, vedeva cioè il motore del progresso e del benessere della società nella competizione e nella libera concorrenza fra gli uomini, anche a prezzo della disuguaglianza. Il liberalismo era l’ideologia prevalente della borghesia terriera e imprenditoriale, propensa a raggiungere l’unità d’Italia con metodi pacifici, e orientata verso una forma di governo di tipo monarchico-costituzionale e un sistema elettivo a base censita ria, che limitasse cioè il diritto di voto ai soli cittadini abbienti. Dello schieramento liberale-moderato, ispirato dall’azione politica di Camillo Benso, conte di Cavour (1810-1861), facevano parte Vincenzo Gioberti (1801-1852 ), animatore del neoguelfismo, e i piemontesi Cesare Balbo (1789-1853) e Massimo D’Azeglio (1798-1866).   Il leader della componente liberale moderata, il conte Camillo Benso di Cavour (1810- 1861), dopo frequenti soggiorni a Ginevra, Parigi e Londra, a contatto con le progredite borghesie di quei paesi si era convinto che il principale ostacolo all’unità d’Italia stava nella sua arretratezza economica e culturale e nell’assenza di un forte ceto borghese. Rimuovere questa arretratezza fu uno dei punti chiave del suo programma. Nel 1842 promosse con alcuni proprietari terrieri illuminati l’Associazione agraria, e nel 1847 fondò il giornale «Il Risorgimento», dalle cui pagine promosse una campagna per la concessione della costituzione e per una politica economica liberista, volta a favorire la borghesia agraria e industriale. Dal 1852 a capo del governo piemontese, Cavour si adoperò per guadagnare alla causa italiana Francia e Inghilterra e per fare del Piemonte il punto di riferimento del movimento patriottico italiano, aprendo così la strada al processo di indipendenza . Nel trattato Del primato morale e civile degli italiani (1843), il sacerdote Vincenzo Gioberti auspicò una confederazione degli Stati italiani, con a capo le rispettive dinastie regnanti, ma sotto la guida del pontefice. La proposta giobertiana (che prese il nome di “neoguelfismo”, in ricordo del partito guelfo che in epoca medioevale indicava i sostenitori del papato in opposizione ai ghibellini sostenitori dell’imperatore) ebbe il merito di avvicinare alla questione risorgimentale quella parte del mondo cattolico che fino allora se ne era tenuta lontana. Il neoguelfismo però, non offriva risposte a importanti interrogativi: al difficile connubio tra cattolicesimo e libertà e alla presenza degli austriaci in Italia.  Altri esponenti del liberalismo moderato ritenevano invece prioritaria la conquista dell’indipendenza e guardavano alla monarchia dei Savoia come punto di riferimento del processo di unificazione nazionale. Tra essi Cesare Balbo, a capo del primo ministero costituzionale del Piemonte (1848), che prospettò una confederazione di Stati, alla cui guida però indicava il Piemonte (Speranze d’Italia, 1844). L’idea fu ripresa da Massimo D’Azeglio nella Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana (1847), in cui, mentre criticava i metodi cospirativi e insurrezionali, indicava al moderatismo liberale la via del dialogo tra i movimenti di liberazione e i sovrani con l’obiettivo di stabilire un programma di riforme.

I democratici

 Il pensiero democratico, pur condividendo con i liberali i princìpi di libertà individuale, se ne distanziava per l’importanza che attribuiva alla sovranità popolare, all’uguaglianza e alla giustizia sociale. Suffragio universale e ordinamento repubblicano erano i punti programmatici dei democratici; in essi si riconoscevano la media e piccola borghesia e vasti strati operai. Allo schieramento democratico appartenevano la corrente repubblicana guidata da Giuseppe Mazzini (1805-1872 ), favorevole all’iniziativa rivoluzionaria (secondo la tradizione giacobina)  e quella repubblicana federalista di Carlo Cattaneo (1801-1869). Il leader del fronte democratico, il genovese Giuseppe Mazzini, fu il primo a chiamare gli italiani a consacrare «il pensiero e l’azione al grande intento di restituire l’Italia in nazione di liberi e eguali, Una, Indipendente, Sovrana». Affiliato dal 1827 alla Carboneria, una delle società segrete antiaustriache più diffuse in Italia, aveva partecipato ai moti del 1830, in seguito ai quali fu arrestato. Nel 1831, esule a Marsiglia, fondò la Giovine Italia, che, a differenza della Carboneria, non era segreta: Mazzini aveva infatti maturato la convinzione che proprio la segretezza, insieme con la mancanza di un programma ben definito, aveva impedito ai cospiratori degli anni Venti e Trenta di suscitare un vasto consenso, con il conseguente fallimento dei moti di quegli anni. La Giovine Italia al contrario non doveva essere «setta, o partito, ma credenza e apostolato», e pertanto i suoi aderenti dovevano propagandare le loro idee, svolgere un’opera di educazione presso le masse popolari, senza la quale non ci sarebbe stata una vera rivoluzione politica. Per Mazzini, inoltre, l’Italia, una e indipendente, doveva tornare a essere una repubblica, come la sua storia passata indicava; soltanto la forma repubblicana, a suo avviso, avrebbe consentito al popolo italiano di tornare a svolgere quella funzione di civiltà, quella missione affidatagli da Dio di guida della nuova Europa dei popoli. Nel tempo, infatti, aveva maturato anche il progetto di un’Europa unita, libera e affratellata, che si era tradotto nella fondazione della Giovine Europa.  Alla concezione repubblicana e unitaria di Mazzini si contrapponeva quella federalista, autorevolmente sostenuta dal milanese Carlo Cattaneo. Formatosi nell’ambiente borghese dell’Illuminismo lombardo, contrassegnato da spirito di concretezza e impegno civile, Cattaneo riteneva prioritario per l’Italia mettersi al passo dei paesi moderni, sia a livello giuridico-amministrativo sia economico e tecnico-scientifico. Il progresso, tuttavia, non era disgiungibile a suo avviso dalla libertà: libertà di pensiero in primo luogo, ma anche economica, civile e politica. Ostile, come gran parte della borghesia lombarda, all’unità d’Italia sotto l’egida dello Stato piemontese, meno progredito politicamente ed economicamente, Cattaneo auspicava che l’Impero asburgico si trasformasse in una federazione di Stati di cui poteva fare parte anche il Lombardo-Veneto. Più in generale, immaginava per l’Europa una confederazione non dissimile da quella americana, una sorta di Stati Uniti d’Europa. Dopo il 1848, tuttavia, preso atto che la monarchia asburgica era ben lontana dall’avallare un simile progetto, concentrò la sua attenzione sull’opportunità di creare una federazione italiana di repubbliche, giacché riteneva che solo la repubblica garantisse la libertà. Tale soluzione era a suo avviso la più ragionevole, date le forti differenze economiche, sociali e culturali che esistevano tra le varie regioni. Cattaneo rimase fedele al federalismo anche dopo l’unità d’Italia, adoperandosi per l’attuazione del decentramento regionale. Inascoltato nella sua epoca, solo in tempi recenti il suo pensiero ha destato un nuovo interesse

Il radicalismo di Ferrari e Pisacane

 Vi era poi uno sparuto gruppo di democratici, come Giuseppe Ferrari (1811-1876) e Carlo Pisacane (1818-1857), i quali ritenevano che la rivoluzione in Italia dovesse prendere un’impronta “socialista”, che alla liberazione dallo straniero dovesse accompagnarsi la liberazione dall’oppressione borghese.

Dopo il 1848-1849 si accentuarono nel fronte democratico le critiche al mazzinianesimo. In particolare il politico e filosofo Giuseppe Ferrari, che, esule in Francia, era venuto a contatto con i socialisti utopisti ed era diventato amico personale di Proudhon, rimproverava a Mazzini la priorità da lui data agli obiettivi dell’indipendenza e dell’unità, ignorando la questione sociale, l’unica a suo avviso capace di mobilitare le popolazioni, specie quelle rurali. Tale posizione era condivisa dall’ex ufficiale dell’esercito borbonico Carlo Pisacane, volontario nella Prima guerra d’indipendenza e nel 1849 alla guida della difesa della Repubblica Romana. In La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 (1851), egli individuò il fallimento delle insurrezioni di quel biennio nella mancanza di un progetto politico capace di far leva sui bisogni delle classi popolari, così da favorire la loro partecipazione. In sintesi, la rivoluzione italiana doveva avere un carattere libertario e socialista.

 L’unità europea nel pensiero risorgimentale Nel pensiero di Mazzini e di Cattaneo – le due figure di maggiore rilievo del periodo risorgimentale – trova spazio anche l’idea di una Europa comunitaria. Per comprendere come l’idea di Europa trovi radici nel risorgimento italiano, è importante seguire sia la riflessione di Mazzini, che, dall’esperienza della Giovine Italia e della Giovine Europa, scriverà in esilio le sue riflessioni sulla democrazia europea , sia quella di Cattaneo che da fed